Una famiglia hazara, etnia fortemente perseguitata in Afghanistan, chiede giustizia per la morte sospetta di una delle figlie.
Sin dalle premesse la storia eccede la sua singolarità e acquista un significato di vasta portata. Come sostiene la filosofa statunitense Judith Butler nel suo Vite precarie: “Molti credono che il dolore ci riporti a una dimensione privata, ci confini nella solitudine e, in questo senso, sia depoliticizzante. Io credo invece che il dolore dia vita a un senso complesso di comunità politica”. Proprio in questo paradigma il film trova la sua forza. La storia di Zahra si dipana come un lamento sommesso, intrecciando i fili sottili del lutto e della sua elaborazione. Mentre Freshta, sorella della vittima, ci fa da guida nei lunghi viaggi verso Kabul, tra le pieghe di un paesaggio interiore ed esteriore. Fotogramma dopo fotogramma, il dolore personale si trasforma in resistenza silenziosa ed implacabile, una eco della lotta di un popolo intero contro l’ingiustizia e l’oblio.
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