Boza! è un’espressione che ricorre spesso lungo le rotte migranti. È un grido di vittoria – quando riesci a bruciare la frontiera e arrivare dall’altro lato – ma è al contempo un’esortazione ad agire, ad andare oltre nonostante i fallimenti. È a suo modo la celebrazione di una caparbietà diventata habitus per chi oggi viaggia senza i documenti giusti.
Il diario è di solito un luogo intimo di riflessione e quelli etnografici non fanno eccezione: sono il primo strumento attraverso cui tenere traccia dell’incontro con il campo della ricerca, documentando gli sviluppi della riflessione, ma anche i dubbi, gli spaesamenti, le contraddizioni. Pubblicarli significa da un lato rivelare uno snodo fondamentale della produzione teorica, dall’altro scommettere sul valore letterario e pubblico che può assumere la scrittura nelle scienze sociali. Questi diari di campo, attraverso un’opera di montaggio narrativo e grazie alla capacità evocativa dell’illustrazione, esplorano le ricadute necropolitiche della produzione e del consolidamento dei confini esterni e interni dell’Unione Europea. Contestualmente, le storie individuali e collettive che qui affiorano – dai campi di Borgo Mezzanone ai valichi del Bianzinese, dagli uliveti tunisini a Lampedusa, dalle metropoli marocchine, da cui partono gli harraga, alle Canarie – restituiscono la potenza trasgressiva della solidarietà come pratica informale e rizomatica, capace di sostenere ciò che gli Stati sanzionano come mobilità inopportune.
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